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16-04-2021

Moby Prince, i medici che lottano per avere giustizia

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DUE MEDICI, UN PADRE CAPITANO

La sera del disastro Luchino Chessa sarebbe potuto essere sul Moby Prince, dopo esserne stato medico di bordo fino a qualche mese prima. Nella tragedia ha perso entrambi i genitori, la madre Maria Giulia di 57 anni e il padre Ugo Chessa, 54enne che di quel traghetto era il capitano.

Trent’anni fa Luchino Chessa era un giovane specializzando, adesso è docente associato di Medicina interna all’Università di Cagliari, dove si è laureato e specializzato in gastroenterologia e in malattie infettive.

Quando sveste il camice, il medico 61enne si immerge nelle decine di fascicoli di inchieste giudiziarie e perizie tecniche, in qualità di presidente dell’associazione ‘10 aprile’, una delle due organizzazioni che rappresenta i parenti delle vittime del più grave disastro della marineria italiana, della “Ustica del mare”.

“È un secondo lavoro, logorante, che ha richiesto l’impegno di anni. Una vicenda che occupa la mente ed esaurisce il tempo”, spiega Chessa al Giornale della Previdenza.

“Un lavoro costante, che ci impegna ancora adesso e impegna i nostri consulenti”, gli fa eco Angelo Chessa, suo fratello, anche lui camice bianco. Laureato in medicina a Cagliari e specializzato in chirurgia ortopedica a Milano, il 55enne è responsabile della Chirurgia del piede all’ospedale San Paolo del capoluogo lombardo.

“Già da specializzando – continua il medico – andavo avanti e indietro da Livorno e poi in giro per il mondo per trovare testimoni”.

Adesso Angelo è presidente onorario dell’Associazione, dopo esserne stato per lunghi anni alla guida.

“Lavoriamo in accordo con l’associazione ‘140 – Familiari delle vittime del Moby Prince’, con gli stessi avvocati e gli stessi tecnici”, precisa il presidente onorario.

LA COMMISSIONE D’INCHIESTA

Dopo il rogo del Moby Prince si parlò subito di errore umano, dell’eccessiva velocità del traghetto appena salpato per Olbia, della distrazione dell’equipaggio, più intento a guardare la partita di calcio Juventus-Barcellona che a seguire la rotta, e della nebbia. Che per alcuni quella sera avrebbe avvolto le acque del porto di Livorno e per altri invece non ci sarebbe stata al momento dell’impatto.

Le verità processuali emerse in due procedimenti sono state messe in discussione nel 2018 dal lavoro della commissione d’inchiesta del Senato presieduta da un altro camice bianco, Silvio Lai, odontoiatra di 54 anni laureato a Sassari, ora direttore generale di una struttura convenzionata.

La commissione è arrivata alla conclusione che la petroliera Agip Abruzzo si trovasse in zona di divieto di ancoraggio – “a luci spente intralciava la navigazione”, precisa Lai – e nella relazione finale smentisce la tesi che alla base del disastro ci fosse stata la negligenza nella conduzione del Moby Prince e tantomeno la nebbia.

Ma soprattutto è arrivata alla conclusione che “non siano stati prestati i soccorsi dovuti al traghetto Moby Prince”, si legge nella sintesi della relazione, e che “le 140 vittime del Moby Prince – aggiunge l’ex senatore Lai – non siano tutte morte nel giro di mezz’ora e quindi un’immediata azione di soccorso probabilmente non sarebbe stata vana, come era stato sostenuto all’inizio”.

I senatori lo hanno dedotto dai nuovi esami tossicologici, che hanno rilevato un elevato tasso di monossido di carbonio nei tessuti di alcune salme. Chi era a bordo avrebbe quindi respirato per ore i fumi dell’incendio. In sostanza, con soccorsi tempestivi ed efficienti probabilmente si sarebbero potute salvare molte vite.

“Ci sono una serie di elementi che, sommati, – commenta l’ex presidente della commissione d’inchiesta – hanno determinato il disastro e condizionato la successiva vicenda giudiziaria: una petroliera che non ci doveva essere, il ritardo nella gestione dei soccorsi e un accordo assicurativo tra gli armatori di Agip Abruzzo e Moby Prince stipulato dopo la tragedia, che ha reso più difficile il lavoro di una piccola procura come quella di Livorno”.

Una domanda ancora senza una risposta compiuta è se davvero quel tratto di mare fosse stato molto più affollato di quanto non sia emerso dal principio.

Di questo è convito Angelo Chessa, che ci dice: “Sette navi e non tre, come si era detto ufficialmente, gravitavano in quel perimetro”. Era l’anno della Guerra del Golfo, e il dilemma – che nemmeno la commissione del Senato è riuscita a sciogliere – è se in quelle acque ci fosse un intenso traffico di imbarcazioni “militarizzate”.

 

I CAMICI CADUTI

In quell’inferno di fiamme e fumi tossici si è salvata solo una persona dell’equipaggio. Tra quanti hanno perso la vita ci sono anche due camici bianchi. Paolo Mura, 34enne di Carbonia, medico di bordo, e Alessandro Vacca, 37enne, medico che era sul Moby Prince come passeggero.

Anche per loro le associazioni delle vittime, Luchino e Angelo Chessa continuano a distanza di trent’anni a chiedere verità e giustizia. Per avere finalmente una risposta definitiva e convincente sulle cause e sulle responsabilità di una vicenda segnata da omissioni, incertezze e forse depistaggi. Unica nebbia ad avvolgere ancora il Moby Prince.

Antioco Fois

https://www.enpam.it/2021/moby-prince-i-medici-che-lottano-per-avere-giustizia/